venerdì 28 dicembre 2007

“In Etiopia vivevo nella miseria; l’Italia mi ha dato la possibilità di costruirmi un futuro”


Mark è un etiope di Addis Abeba di 23 anni, giunto in Italia circa cinque anni fa. Salerno ora è divenuta la sua nuova casa e gli ha aperto le porte ad un futuro duro, ma finalmente positivo. Lo incontro in un’area del mercatino etnico allestito dal comune di Salerno. La sua piccola attività ora consiste nella vendita di mobili, accessori e punti luce rigorosamente prodotti nella sua tanto cara Africa. Questo tipo di commercio, soprattutto negli ultimi anni, ha visto la crescente simpatia del pubblico italiano, che ha rivalutato in maniera decisa questo stile. Dopo esserci salutati, si inizia con l’intervista.
Mark, raccontaci del tuo passato; come e perché hai deciso di approdare in Italia?

Avevo circa quindici anni e la vita non è che mi sorridesse più di tanto. Ogni mattina mi svegliavo quando era ancora notte fonda per andare a lavorare con mio padre. Lo aiutavo sempre perché in famiglia eravamo tanti e la fame si faceva sentire. I lavori erano duri, anzi durissimi, soprattutto quelli nelle cave di pietra e di carbone che proprio non riuscivo a digerire. Era però un dovere a cui non potevo proprio oppormi.
E’ in quel periodo che è maturata in me la voglia di fuggire via e di cercar fortuna in una qualsiasi parte del mondo migliore della mia Etiopia.
E’ stato facile per te giungere nel nostro Paese? Chi ti ha aiutato?
Era l’estate torrida del 2002 e sono venuto a conoscenza del fatto che c’era un mio zio che aveva preso la decisione di partire per l’Italia.
Non ci ho pensato più di due volte: ho raccolto un po’ di roba che mi sarebbe tornata utile nel lungo viaggio, ho salutato la mia famiglia che non si dava pace per la mia scelta, e sono salito sullo stesso pullman di mio zio con destinazione Tunisi. Il viaggio è stato massacrante, ai limiti della resistenza umana perché ci hanno accalcati come se fossimo stati delle bestie. La cosa più triste, però, è che il peggio doveva ancora venire.
Alludi forse all’ultimo tratto del tuo viaggio?
Esattamente. Giunti a Tunisi si è scatenato l’inferno perché è iniziata la lotta per accaparrarsi gli ultimi posti utili per salire su delle imbarcazioni a dir poco improvvisate, che dovevano traghettarci in Sicilia, a Palermo per la precisione.
Quanto hai pagato per salire a bordo?
1500 euro ed ero in buona compagnia. La carretta era piena fino all’orlo di persone disperate provenienti da ogni parte del mondo. Non c’era lo spazio neanche per respirare tant’è che per aumentare la superficie utile, ci è stato ordinato di portare con noi soltanto una coperta e dell’acqua, con la promessa che il restante bagaglio ci sarebbe stato inviato in un secondo momento.
Quali sono state le sensazione durante la traversata a mare aperto?
Bruttissime; c’era un clima di terrore e si pregava tutti insieme indipendentemente dalla propria religione per aggrapparsi a qualcosa che ci poteva aiutare a rimanere in vita. Dovevamo giungere nella nostra America, ma eravamo consapevoli che ciò sarebbe stata un’impresa. La fortuna ha voluto che il tempo ci aiutasse e con esso il mare che sembrava essere benevolo.
Qual è stato l’attimo più brutto che ti ha fatto tremare?
Certamente durante lo scambio dell’imbarcazione.
Spiegati meglio.
Gli scafisti sono delle persone squallide che sfruttano la miseria della gente per arricchirsi. Quando si sta per giungere a destinazione, sono soliti far scendere i passeggeri su delle imbarcazioni di fortuna come gommoni o barchette che a malapena contengono tutti. Loro non rischiano niente, non vogliono problemi e affidano nelle mani della buona sorte, la vita delle loro vittime che sono fortunati se riescono a toccare terra. Per questo si verificano di continuo tragedie del mare perché non sempre va tutto liscio come è capitato a me. Io mi ritengo una persona fortunata, perché ce l’ho fatta e sono qui a parlare con te.
Come ti ha accolto il nostro Paese?
Beh, il mio arrivo è quasi coinciso con la legge Bossi-Fini ma anche a quello sono riuscito a sfuggire...
E sulle novità proposte dalla Amato-Ferrero?
Non credo che porterà ad alcun miglioramento sia sul fronte italiano e sia per ciò che riguarda gli immigrati.
Pentito di aver preso la decisione cinque anni fa di arrivare nel nostro Paese?
Assolutamente. Io all’Italia ed agli italiani devo tutto; i primi anni sono stati difficili perché ho dovuto fare i salti mortali per ottenere un permesso di soggiorno. Ora no, ora sto bene, Salerno mi ha adottato, ho un lavoro ma non dimentico mai la mia Etiopia e, quando posso, corro a riabbracciare la mia famiglia che a distanza di tempo mi ha perdonato. Ho rischiato sì, ma ora ce l’ho fatta ed anche io con la mia modesta attività, mi sento parte integrante di un sistema economico quale quello italiano, che si basa anche sul lavoro di noi immigrati regolarizzati.

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